Il leader libico accusato di aver condotto un «golpe strisciante» nella capitale ai danni del premier del governo di unità nazionale critica i nostri media: «Continuate a scrivere che io sono legato ai Fratelli Musulmani. Non è affatto vero!»

«Benvenuta l’ambasciata italiana a Tripoli. E benvenuto anche il vostro ospedale militare a Misurata. Però avete troppi soldati in Libia. Sono oltre duecento. A cosa servono?». Così il 53enne Khalifa Ghwell, il leader libico accusato di avere appena condotto un «golpe strisciante» nella capitale ai danni del premier del governo di unità nazionale Fayez Serraj, ci riceve nel suo luminoso ufficio sul lungomare di Misurata. L’intervista dura un’ora e mezza. Una figura controversa la sua. Il suo campo, legato ai partiti religiosi, è accusato di non aver accettato la sconfitta alle elezioni del luglio 2014 contro una variegata coalizione di formazioni più o meno laiche. Oggi si definisce «l’unico leader legittimo»: è il maggior avversario di Serraj, il quale gode del sostegno dell’Onu, e non esita a criticare le mosse italiane in suo favore. Il nostro incontro è anche dettato dal caos crescente nella capitale e dalla visibile presenza delle milizie pro-Ghwell per le strade e nei ministeri. Curioso sugli ultimi sviluppi della politica italiana, Ghwell ha parole dure per i nostri media: «Continuate a scrivere che io sono legato ai Fratelli Musulmani. Non è affatto vero! Un errore. Sono un musulmano credente, rispetto le leggi islamiche anche nella vita privata, non bevo alcol per esempio. Ma non ho alcun rapporto con quel movimento politico qui o all’estero».

Il suo golpe è avvenuto ai primi di gennaio, pochi dopo l’annuncio della riapertura dell’ambasciata italiana. I due fatti sono legati?

«Assolutamente no. Non c’è alcun legame. Ma non c’è golpe. Il mio governo è legittimato dal parlamento di Tripoli. Al contrario, Serraj non ha mai ricevuto alcun sostegno legale in Tripolitania e neppure dal parlamento di Tobruk, come invece era previsto dalle regole stabilite in Marocco nel dicembre 2015. La comunità internazionale, l’Onu, con l’Italia in testa, non possono decidere il governo dei libici. Serraj non ha alcuna forza, è arrivato nel marzo 2016 dal mare, di nascosto. Io, che allora ero il premier insediato, mi sono spostato a Misurata, con i miei ministri avevamo deciso di dargli credito. Ma già lo scorso 14 ottobre sono tornato a Tripoli, per il semplice fatto che la situazione sta collassando. Nella capitale crescono i rapimenti, le violenze, la corruzione, l’inefficienza dello Stato, i furti di ogni tipo, la sicurezza è degenerata come non mai. Un anno fa un euro valeva un dinaro e mezzo, oggi quasi sette».

Serraj ringrazia l’Italia per l’apertura della sede diplomatica, la considera di grande aiuto. E lei?

«Anch’io, senza alcun dubbio. E mi auguro che altri seguano. Apprezzerei molto l’apertura della rappresentanza europea. Il giudizio di Serraj invece non importa nulla. Tra poco sarà svanito dall’arena politica libica».

Lei cosa controlla a Tripoli?

«Sei ministeri: Difesa, Lavoro, Sanità, Educazione, Economia, Martiri della Rivoluzione. Inoltre larga parte dei quartieri occidentali, l’hotel Rixos, e stiamo ricostruendo l’aeroporto internazionale, che aprirà per il sesto anniversario della rivoluzione il 17 febbraio».

Serraj definisce le sue mosse una commedia senza sostanza. Quei ministeri erano già vuoti. Cosa replica?

«Noi le cose le facciamo. Agiamo nel concreto. È lui ad essere senza appoggio locale, un patetico personaggio da cartoni animati. Fumo senza arrosto. Con lui i ministeri non lavoravano. Ma noi oggi siamo in piena attività».

Chi ha fatto saltare la bomba presso l’ambasciata italiana sabato scorso?

«L’inchiesta si indirizza contro i circoli legati al generale Khalifa Haftar, che sta a Bengasi. Così concludono le maggiori milizie di Tripoli. Ma personalmente non ne sono certo al cento per cento. Sono troppi gli attori interessati a fomentare il caos, libici e stranieri».

Qui a Misurata i medici locali sembrano molto contenti del lavoro dell’ospedale italiano e del suo personale. Lei però ha espresso critiche anche dure sulla loro presenza.

«L’ospedale va benissimo. Anzi, ringrazio l’Italia per il suo sforzo, che serve a curare i nostri feriti nella guerra contro l’Isis. Però sin dal loro arrivo in autunno non ho capito perché mai ci fossero tanti soldati. A che servono? L’ospedale è ben protetto, chiuso in una nostra base aerea. Capisco la scorta di dieci e venti soldati italiani. Ma perché oltre duecento?».

Servono per la sicurezza del personale italiano. Un meccanismo simile alle centinaia di militari posti a difesa dei tecnici civili italiani che lavorano alla diga di Mosul, in Iraq.

«Per noi sono decisamente troppi. Una ventina di giorni fa ho anche scritto una lettera al governo di Roma per ribadire che sarebbe meglio ritirarne una buona parte. Alcuni in Libia li percepiscono come un contingente d’invasione. Io stesso rimasi colpito quando li vidi arrivare di notte dal porto qui a Misurata, in pieno assetto di guerra. Girano voci di loro attività nel deserto, nelle oasi e sui pozzi petroliferi, specie nella zona di Giufra. Non vorrei potessero subire atti di violenza. Il tema è delicato».

Tra pochi giorni dovrebbe avvenire un summit tra Serraj e Haftar al Cairo. Forse in vista di una vera alleanza tra Tripolitania e Cirenaica. Come lo vede?

«Il risultato è scontato: zero. Non ne uscirà nulla di nuovo. I due da lungo tempo cooperano dietro le quinte».