L’accordo Roma-Tripoli per arginare l’arrivo dei migranti attraverso il Mediterraneo nasce da una inedita stagione di diplomazia del deserto e deve ora superare l’esame dei precari equilibri di forza in Libia, ma può trasformarsi nel tassello di una vasta intesa regionale fra Washington e Mosca.
Inviati del nostro governo hanno così dialogato non solo con i rappresentanti di al-Sarraj ma anche con gli sheik delle singole tribù, facendosi portatori di due messaggi-chiave: il comune interesse è sconfiggere i terroristi jihadisti, che si alimentano con i traffici illeciti, e la possibilità di far convergere investimenti per lo sviluppo delle aree più remote del Fezzan. I contatti con i leader delle tribù del Sahara sono avvenuti nelle cornici più diverse scrivendo pagine di diplomazia che riflettono la trasformazione dei rapporti internazionali. I risultati di tale approccio si sono visti prima a Sirte, dove le tribù libiche hanno perso oltre 500 combattenti per sconfiggere i jihadisti dello Stato Islamico, e poi a Roma con la firma fra i premier, Gentiloni e al-Sarraj, del memorandum sulla sicurezza che prevede estesi interventi bilaterali in Libia contro i trafficanti, inclusi aiuti allo sviluppo per «le regioni colpite dal fenomeno dell’immigrazione illegale». Ciò significa che l’Italia è artefice e garante di una piattaforma comune di interventi in Libia destinata a contrastare i trafficanti grazie ad una cooperazione fra Tripoli e tribù del deserto capace di consolidare la sovranità dell’esecutivo di al-Sarraj.
L’Unione Europea, al recente Consiglio di Malta, ha sostenuto tale approccio e ieri sera il presidente americano Donald Trump ha incoraggiato l’Italia a proseguire sulla strada intrapresa. Ma sarebbe un errore ignorare gli ostacoli esistenti. A cominciare dagli interessi conflittuali di altre fazioni e nazioni. Se la Turchia di Recep Tayyp Erdogan ha da poco riaperto l’ambasciata a Tripoli – affiancandosi all’Italia – e converge sulle mosse della nostra diplomazia del deserto altrettanto non si può dire per l’Egitto, alleato di ferro del generale Khalifa Haftar della Cirenaica rivale di al-Sarraj. Gli Emirati Arabi Uniti invece hanno un proprio candidato alla guida della Libia e non si fidano di altri. Ci sono poi i dubbi sulla Gran Bretagna, presente a Misurata con le truppe speciali. Per finire con Francia e Russia, entrambe sostenitrici di Haftar, che si trovano ora davanti ad un evidente bivio: avallare la definitiva spaccatura della Libia oppure favorire con Roma un vertice di riconciliazione fra il loro protetto e al-Sarraj.
E’ tale cornice che spiega l’attesa per le mosse dell’amministrazione Trump. Il capo del Pentagono, James Mattis, ha espresso di persona al ministro della Difesa Roberta Pinotti il sostegno per il ruolo italiano – a partire dall’uso della base di Sigonella per le operazioni aeree anti-Isis – e il Segretario di Stato, Rex Tillerson, manifesta ai suoi collaboratori un approccio simile, forse dovuto alla conoscenza personale del Maghreb maturata quando era alla guida di Exxon. Da qui l’ipotesi che il presidente Trump possa decidere di sfruttare i risultati della diplomazia italiana nel deserto, puntando a consolidarli identificando nel nostro Paese l’alleato di riferimento. Mirando magari ad includere la Libia nell’ambito di un possibile «accordo regionale con la Russia sulle aree di crisi nel mondo arabo» di cui si vocifera a Washington.