Qualcosa di nuovo si muove in Libia. L’Italia se ne fa parte attiva: nell’era delle crisi Ue e delle incertezze americane bisogna essere pronti a fare da soli. L’aiuto verrà a chi s’aiuta. Così, il 31 marzo, al Viminale, sotto i vigili occhi del ministro Minniti, si sono incontrate tre importanti tribù: Tebu, Suleyman, Tuareg. Le prime due, fra loro ostili, hanno concluso un accordo di pace; i Tuareg facevano atto d’importante presenza. Se tiene, l’intesa è un doppio passo avanti: verso la stabilizzazione del Paese e verso il controllo dell’immigrazione dall’Africa verso l’Italia e l’Europa. La prospettiva internazionale sulla Libia tende a mettere a fuoco la spaccatura fra governo (internazionalmente riconosciuto) di Tripoli e quello (con sostegni esterni non indifferenti) di Tobruk e la pressoché coincidente divisione fra Tripolitania e Cirenaica; vi si aggiungono i rischi legati alla presenza e penetrazione di Isis (pur sloggiata da Sirte) e di altre milizie e schegge fondamentaliste violente. Tutto vero, ma la schematizzazione ignora la complessità della rete tribale e trascura la terza componente dello Stato libico: il Fezzan, fascia Sud desertica e poco urbanizzata. Dove non arriva l’autorità dei governi o l’influenza di città organizzate come Misurata. Il controllo del territorio, specie all’interno, passa attraverso le tribù. Frontiera sahariana (circa 5000 porosi chilometri), immigrazione e traffici d’ogni genere non si controllano senza la loro collaborazione; quando invece sono in contrapposizione fra loro, come nel caso di Tebu a Suleyman, le maglie si allargano ancora di più. La carta geografica è la chiave di lettura. Intrecciati a macchia di leopardo, Tebu e Suleyman coprono un’area che dal confine meridionale (Niger, Ciad, Sudan) si incunea verso il Mediterraneo, fra Tripolitania e Cirenaica; i Tuareg, pur non parte dell’accordo di pace, quella confinante con Tunisia e Algeria (Ovest e Sud- Ovest). Per entrare in Libia via terra si passa necessariamente attraverso l’una o l’altra. La pace fra Tebu e Suleyman dovrà adesso essere mantenuta, cosa tutt’altro che garantita: in Libia c’è sempre chi lavora contro il ripristino di legalità e stabilità; traffici e immigrazione clandestina generano e alimentano potenti interessi che è arduo scalzare. I Tuareg sono per il momento rimasti alla finestra; si spera nella loro piena adesione. La pace fra le tre tribù, presenze dominanti dell’interno, è un tassello fondamentale per la riconciliazione nazionale e la stabilizzazione del paese. Nessun governo di unità nazionale può imporsi sul Fezzan senza essere da loro accettato. Prioritario per l’Italia, è il controllo delle frontiere meridionali. I flussi migratori africani, e i traffici che li accompagnano, le attraversano e proseguono fino alle sponde del Mediterraneo in territorio misto Tebu e Suleyman. L’obiettivo di trasformare rapidamente le due tribù in efficiente guardia di confine è alquanto ambizioso, ma essere riusciti a portarle a Roma sottintende l’impegno di entrambe a fare da filtro frontaliero; come minimo a non essere troppo compiacenti, o addirittura complici, d’ingressi e transito. Siamo alla vigilia della stagione degli sbarchi. Il governo Gentiloni sa di non avere la bacchetta magica per prevenirli o fermarli. Sta però dimostrando di avere una strategia nazionale sull’immigrazione e di perseguirla con coerenza. Si è mosso sistematicamente: in gennaio, sul fronte interno con Cie, respingimenti e accordi di riammissione; in febbraio, su quello europeo col pressing al vertice di Malta e su quello libico impegnando Fayez al-Sarraj al controllo dei confini. La partita si gioca soprattutto in Libia. Il coinvolgimento nella gestione dell’immigrazione, prima del Presidente poi delle tribù, è frutto di un’azione politica di Roma e dell’efficace e coraggioso lavoro in loco dell’Ambasciatore Giuseppe Perrone. Quella che su queste colonne Maurizio Molinari ha chiamato la «diplomazia del deserto».