Le indagini della Procura di Catania su possibili legami fra i network criminali ed alcune organizzazioni non governative (ong) aggiungono un tassello di valore strategico allo scontro in atto fra clan e Stati sovrani per il controllo delle acque nel Mediterraneo. 

Accertare l’eventualità che i clan adoperino un numero limitato di ong come una sorta di «Cavalli di Troia» per penetrare le rotte è nell’interesse del nostro Paese e rientra nella definizione di una nuova dottrina di sicurezza capace di fronteggiare i pericoli generati dalla decomposizione degli Stati arabo-musulmani. Il nemico da cui dobbiamo proteggerci sono i network criminali che gestiscono il traffico di esseri umani, alleandosi con clan, tribù e milizie di ogni genere. Si tratta di un avversario spietato, dotato di ingenti risorse finanziarie ed umane, capace di gestire complesse operazioni logistiche, abile nel far fruttare le rotte per i disperati attraverso il Sahara ed ora intento a costruirsi una sorta di ponte sul Mediterraneo per facilitare il loro arrivo sulle nostre coste, ovvero in Europa. 

I finanziamenti ad alcune ong al centro delle indagini sarebbero finalizzati a far salvare – consapevolmente o meno – dalle loro unità i profughi in arrivo sui barconi salpati dalle coste libiche. Con questo espediente il crimine organizzato punta ad assicurarsi il controllo dell’ultimo miglio di percorso verso il territorio europeo. Se un trafficante, salpando dalla Libia con un barcone di migranti, telefona ad una ong facendo sapere in che direzione navigherà si può assicurare che vadano a prendere il suo carico in mezzo al mare. È un metodo, cinico e spregiudicato, per sfruttare a proprio vantaggio la legge del mare sull’obbligo umanitario al salvataggio di chi si trova in pericolo di vita. Tutto ciò svela l’esistenza di un disegno dei clan che ha tre aspetti convergenti. Primo: conferma la loro capacità di sfruttare a proprio favore le vulnerabilità dei sistemi democratici. Secondo: si propone di moltiplicare gli arrivi di migranti nel nostro Paese in tempi rapidi. Terzo: è destinato a generare flussi imponenti di proventi illeciti destinati ad alimentare ogni sorta di attività criminali, jihadismo incluso, che minacciano più nazioni. Davanti a tale scenario l’interesse italiano è tutelare i propri cittadini, accogliere i migranti e combattere i criminali privandoli anche dell’accesso alle ong. Ciò significa far coesistere i valori dell’accoglienza e della solidarietà, fondamento dell’integrazione dei rifugiati, con il più rigido rispetto della legge contro pirati e trafficanti. In ultima analisi il braccio di ferro in atto fra il nostro Paese e i trafficanti di uomini è un tassello del più ampio scontro sui nuovi equilibri di forze nel Mediterraneo, dove la contesa è fra Stati nazionali e gruppi criminali. Questi ultimi, che già controllano ampi spazi di territorio nel Nordafrica, puntano ad estendere il loro potere su alcune rotte marittime per avere dei corridoi di penetrazione verso l’Europa continentale «bucando» le difese nazionali. Se dovessero riuscire nell’intento verrebbe indebolita la sovranità dei Paesi Ue – a cominciare dall’Italia – negli spazi marittimi centrando un obiettivo che i pirati del Maghreb perseguono dalla fine del Settecento, quando scorribande, sequestri e violenze diventarono di entità tale da spingere, nel 1801, il presidente americano Thomas Jefferson ad allearsi con la Svezia ed il Regno delle Due Sicilie facendo sbarcare i Marines sulle spiagge di Tripoli per garantire la sicurezza delle rotte dai pirati libici, algerini e tunisini. Allora come oggi, la posta in gioco è la stabilità del Mediterraneo che i clan vogliono sconvolgere e gli Stati tentano di proteggere.