Di pattuglia sulla motovedetta della guardia costiera di Tripoli (l’equipaggio addestrato a Gaeta), La lotta impari con i trafficanti: «Loro sono troppo forti»

Cinque di ieri mattina, al largo. Alba grigiastra, nubi cumuliformi e fastidiose onde basse, nervose, spazzate dal vento che arriva dal Bosforo e s’intensifica sul Golfo della Sirte. La nave pirata si distingue con facilità sul radar di plancia della motovedetta classe «Bigliani», che i libici hanno appena ribattezzato Rash Jider, ma è stata costruita nei primi anni Novanta dai cantieri di Sarzana e prima di essere data al governo di Tripoli fu in servizio con la Finanza italiana: 27 metri di vetroresina, per una stazza complessiva di 87 tonnellate, con l’equipaggio composto da 13 marinai guardiacoste libici freschi di due settimane d’addestramento a Gaeta. Ecco il puntino giallo sullo schermo, che il sistema d’identificazione automatico non riesce però a decifrare. «Si sono disinseriti apposta per non farsi riconoscere. Ovvio che è un naviglio importante delle bande criminali per il traffico di migranti. Fanno sempre così e talvolta anche le organizzazioni umanitarie internazionali cercano di non farsi riconoscere, con la differenza però che i pirati ci sparano contro. Sono qui fissi, per settimane intere in attesa dei loro barchini carichi del bottino, ovvero i migranti che arrivano dalle coste a est di Tripoli, specie dalla zona tra Khoms e Garabulli. Violano senza problemi le nostre acque territoriali, sanno di poter agire impuniti», sbotta preoccupato il capitano, il 36nne Walid Khalifa Ben Hassan. Per lui è la seconda uscita su questa che è una delle quattro motovedette italiane appena arrivate a Tripoli delle dieci previste a breve in ottemperanza agli accordi firmati a partire da febbraio tra Roma e il governo di Fayez Serraj nel tentativo di controllare i flussi migratori e ridare sovranità alla Libia.

Mercantile senza nome

Tra l’equipaggio c’è eccitazione, ma anche timore. Più ci avviciniamo e più la nave pirata ingigantisce all’orizzonte. Un massiccio mercantile grigio scuro e arancione sporco, irto di gru, cavi e cime già pronte sui ponti. Non ha nome sulla fiancata e non mostra alcuna bandiera. «Fatevi riconoscere: che nave siete, cosa trasportate, dove siete diretti?», chiede in arabo un marinaio che dovrebbe essere l’addetto alle comunicazioni, ma mostra ancora poca domestichezza con la radio. «State arrivando troppo vicino, restate a quattro miglia di distanza, se vi avvicinate la considereremo un’azione ostile», replicano dal mercantile secchi in arabo stentato, privo di alcun accento libico. Controlliamo la nostra e loro posizione sul radar, noi siamo a 8 miglia dalla costa, loro appena poco più lontani, in ogni caso sicuramente entro le 12 miglia delle acque territoriali libiche. «Siamo una nave Nato, ci sono americani a bordo e navighiamo in acque internazionali, state lontani o spariamo», dicono allora aggressivi e questa volta in inglese perfetto, senza peraltro fornire alcuna indicazione sull’identità del naviglio. «Negativo. Siete nelle acque territoriali libiche! Avete il dovere di farvi riconoscere. Chi siete? Noi a bordo abbiamo anche un giornalista italiano, cittadino di un Paese Nato», rispondiamo ancora. Segue un silenzio nervoso, accresciuto nella tensione dal rombo dei nostri due motori diesel tedeschi e il fragore dei frangenti sulla fiancata. Ma il loro silenzio è solo amplificato dal gracchiare della radio. Trascorrono forse cinque minuti. Walid è teso. «Noi abbiamo solo i nostri Kalashnikov. Loro armi pesanti. Non possiamo fare nulla», dice fissando l’acqua.

 

Quindi arrivano gli spari. Poche raffiche, tirate alte sul nostro pennone, oltre l’antenna. I proiettili si perdono all’orizzonte. Ma l’avvertimento è più che chiaro. «Almeno una quindicina di colpi. Tirano con una mitragliatrice fissa da 12,7 millimetri. Possono bucare il nostro scafo, mandarci a picco quando vogliono e il loro raggio d’azione è almeno il triplo di quello delle nostre armi. Potrebbero avere anche dei lanciagranate», esclama un altro tra i marinai, che una settimana fa è stato preso di mira al largo di Sabratha, la cittadina nel tratto di costa occidentale considerata la vera capitale del traffico di migranti verso l’Italia. Un episodio che per alcuni di loro è stato un malaugurato battesimo del fuoco sulle onde.

Lo scontro a fuoco

C’era anche Walid. «Ci hanno sparato da terra e più da vicino dai loro motoscafi pesanti forniti di mitragliatrici da 23 millimetri. Ce la siamo vista bruttissima. E siamo scampati solo per il rotto della cuffia. I nostri motori hanno raggiunto la punta massima di 42 nodi, ma facevano un fumo talmente nero che gli scafisti hanno poi celebrato nei loro covi convinti che fossimo affondati tra le fiamme», ricorda. Non ci sono argomenti sufficienti per sfidare la sorte questa volta. Oltretutto a Sabratha i guardiacoste libici erano a bordo di una motovedetta corazzata della ex marina di Gheddafi a sua volta dotata di cannoncini e lanciarazzi. «Laggiù non possiamo assolutamente utilizzare le barche italiane, che sono disarmate e non blindate. È una situazione di guerra. Dove le bande criminali internazionali fanno a gara per rassicurare i loro clienti tra i migranti. Appena possono ci sparano contro. Parliamo di affari di miliardi di dollari al mese», spiegano. I conti sono presto fatti. Sia i libici che gli osservatori stranieri (inclusi gli italiani) presenti nella regione stimano a quasi un milione i migranti (in grande maggioranza in arrivo dall’Africa sub-sahariana) stipati al momento sulle coste libiche. Si calcola che ogni due settimane entrino nel Paese da sette punti di transito nel deserto tra Ciad e Niger almeno 40 mila persone. D’estate circa il doppio di quelli morti in mare perisce di sete e stanchezza sulle piste bollenti dai loro villaggi alla costa mediterranea. «Per noi si tratta di un problema vitale, gravissimo. I trafficanti con le loro organizzazioni paramilitari garantiscono le migrazioni. E così fanno anche le organizzazioni umanitarie, che in modo più o meno consapevole li fiancheggiano e adesso complicano le nostre operazioni di pattugliamento», denuncia a Tripoli il colonnello 54enne Massud Abdel Samat, alto dirigente della Guardia Costiera che spesso si relaziona direttamente a Roma con lo stesso ministro Marco Minniti.

Le incognite

Lui e i suoi uomini sanno bene di essere solo all’inizio di un lavoro dalle incognite infinite. «Certo noi non abbiamo la forza per fronteggiare con le armi gli scafisti. Sabratha ormai è diventata una sorta di repubblica indipendente, un fortino imprendibile dei criminali reso florido con il traffico di esseri umani», dice Massud dalla sua scrivania nello stesso ufficio che fu di Italo Balbo. Da parte italiana si replica che nel rispetto dell’embargo internazionale era impossibile fornire le motovedette armate. Ma intanto Walid e i suoi uomini contestano che le motovedette sono modelli antiquati. La Rash Jider è l’unica al momento pronta per salpare. Ieri i suoi carburatori si sono ingolfati in navigazione, ma per un errore dei marinai. Le altre tre sono già ferme in riparazione. Quella che è stata ribattezzata Sabratha governa male e ha le pompe di sentina difettose. La Zuwara ha un problema al sistema dell’aria compressa. E la Zawyia necessita la revisione dell’apparato elettrico.