Dopo la guerra dei Sei Giorni le comunità furono perseguitate. Molti morirono, altri furono espulsi. Il successo dell’integrazione.

Ai profughi diceva “Intanto avere salva la vita, adesso dovete ricominciare”. Quando entrò la prima volta nel campo profughi di Santa Maria Capua Vetere gli andarono incontro disperati per conoscere il destino dei loro cari, per chiedergli aiuto. Lo chiamavano “Berto”, Alberto Fellus, era un leader già dai tempi di Tripoli, e guidò, assieme ad altri, la rinascita della sua comunità in Italia. Era fuggito dalla Libia nel giugno del ’67, quando con lo scoppio della Guerra dei Sei Giorni la furia degli arabi si scagliò contro gli ebrei: molti furono uccisi, altri riuscirono a prendere la fuga e ad arrivare in Italia.

Berto a Tripoli era rappresentante e distributore di prodotti alimentari. Viveva nel quartiere internazionale, parlava le lingue, era un punto di riferimento per la comunità. Arrivò all’aeroporto di Roma dopo una fuga rocambolesca con la moglie Iris e le tre figlie, Claudia, Jacqueline e Gabriella. “La situazione precipitò improvvisamente – ricorda Iris – ci svegliammo una mattina al grido “Jihad, Jihad” nelle strade. La furia e la violenza contro gli ebrei furono spaventose, e la polizia libica non riuscì a placarle. Restammo in casa e con l’aiuto di un amico fuggimmo. Non tutti furono fortunati come noi, da Tripoli a Bengasi molti fuggirono, ma nei villaggi della Libia gli ebrei vennero quasi sterminati. Arrivammo a Roma da profughi, avevamo perso tutto. Berto non si scoraggiò e di li iniziò la nostra rinascita”. Andarono a vivere in una casa, cinque in una stanza, vicino alla stazione Termini. Quello fu il destino dei più fortunati: grazie al sostegno di amici e famigliari arrivati prima, alcuni ebrei libici trovarono un appoggio.

A Capua

Gli altri finirono nei campi profughi di Capua e Latin. “Io ero una bambina, non posso dimenticare in che condizioni vivevano quelle persone – ricorda Claudia -. Andavo nel campo profughi di Capua con papà ogni giorno. C’era un’enorme tenda che ospitava i profughi. Lui faceva l’inventario delle esigenze.

Ricordo i racconti, i rimpianti, la disperazione, il vissuto dello sradicamento. Avevano perso tutto, e pensavano alla sopravvivenza dei loro figli. Ricevevano il superfluo, ma non il necessario. Era una situazione paradossale. Papà gli spiegava che la fine era un nuovo inizio”. All’arrivo in Italia, Berto assieme ad altre guide della comunità libica, costituirono il Comitato Assistenza Ebrei di Libia, per cercare di organizzare l’accoglienza, dialogare con le Istituzioni e con la Comunità Ebraica di Roma, guidata dal Rabino Capo Elio Toaff, che si adoperò per far fronte all’emergenza. Nella corrispondenza, che le figlie di Berto conservano, il Comitato lamenta un mancato censimento di profughi ebrei libici nei campi, e che questi, malgrado ricevessero cibo, non potevano nutrirsene, visto che rispettavano le regole alimentari dell’ebraismo. “Mio padre costituì una sorta di mutuo soccorso – continua Claudia -. Chi aveva dava”. Era l’antica tradizione di chi nelle sinagoghe in Libia faceva le raccolte per i più bisognosi. “Ma l’aiuto non era mai fine a se stesso: ricordo che papà diede dei soldi ad un ragazzo per sposarsi, per un nuovo inizio. Era un concetto costruttivo di assistenza. Si voleva l’aiuto per ripartire, per riscattarsi. Chi aveva già costruito aiutava l’altro. E Berto, insieme ad altri, era il ponte tra due mondi, tra chi era arrivato e chi arrivava”.

Ripartire

Ripartire dal campo profughi era la missione più difficile. Linda Hassan aveva 32 anni quando è giunta al campo profughi di Capua: “Sono arrivata con quattro figli, l’ultimo aveva 7 mesi. Mio marito Leone intanto andò a Roma a cercare fortuna – racconta -. Non sapevamo cosa ci aspettasse, il campo era immenso, c’erano pochissime persone, la maggior parte dalla Jugoslavia. Era una desolazione completa. E io non avevo nulla da dare ai miei figli. L’acqua era sporca, uno dei miei figli si ammalò. Ci davano un litro di caffè e pochi pesci fritti come fossimo cani. Restavo sveglia tutta la notte, per vegliare sui bambini. Era un inferno. Non abbiamo avuto nessuna assistenza, ma pensavamo che malgrado tutto, i pogrom, le sofferenze, la fuga, eravamo vivi”. Anche Linda, uscita dal campo profughi, ricominciò a vivere: “Io a Tripoli non ho mai lavorato, a Roma inizia a fare dei lavoretti, ci rimboccammo le maniche. Noi ebrei di Libia abbiamo una caratteristica, siamo orgogliosi, teniamo alla nostra dignità. Quando non avevamo possibilità economiche a Roma, compravo vestiti da pochi soldi, e li rendevo prodotti di boutique.

Salvi per miracolo

Rafael Bedussa, 74 anni, arrivava a Bengasi al Campo di Capua, dove restò per un mese con i cinque fratelli e i suoi genitori: “A Bengasi eravamo circa 200 ebrei – racconta Rafael -. Il 5 giugno fummo portati in prigione, in modo cautelativo, per evitare che fossimo linciati nelle rivolte. Non potevamo sentire le notizie dalla radio, ascoltavamo solo le fonti arabe che dichiaravano di aver distrutto Israele, e così credevamo. Eravamo disperati. Alla fine ci caricarono sugli aerei e arrivati in Italia ci mandarono al campo profughi. Eravamo salvi per miracolo, trovarci al sicuro era un altro miracolo. Io aiutavo al centralino telefonico. Alla mensa ci davano cibo che non potevamo mangiare, così le donne si organizzarono per cucinare. A me piaceva giocare a calcio, e organizzavo partite. Era un modo per sopravvivere. Un giorno incontrai per caso una persona che avevo aiutato in passato e mi diede del denaro per iniziare, presi la mia famiglia e la portai via da li. Così iniziò la nostra avventura”.