Le confessioni di Mohammad, cresciuto con Salman: «Siamo circondati dalla violenza». «Entrambi figli di perseguitati da Gheddafi, lui è stato portato dal padre a combattere»

«Non sono affatto sorpreso che Salman abbia massacrato tutti quei civili a Manchester decidendo di uccidere se stesso. Era il tipo che poteva farlo, lo sapevamo tutti. Del resto, tra la comunità di emigrati libici con cittadinanza britannica in quella città conosco personalmente tanti che sono estremisti come lui. E anche qui in Libia ci sono un mucchio di giovani che ormai danno ben poco valore alle loro vite personali. La morte, persino il suicidio sono parte del nostro quotidiano». Per oltre due giorni il 23enne Mohammad al Sharif ha cercato di raccontarci e dare un senso al gesto del suo vecchio amico, coetaneo e compagno di scuola Salman Abedi: il kamikaze che due settimane fa ha ucciso 22 civili, tra loro tanti bambini, nel cuore dell’ex polo industriale britannico.

Per ben nove anni hanno frequentato le stesse classi, pregato nella stessa moschea, vissuto nello stesso quartiere. «Siamo entrambi figli di famiglie di profughi fuggiti dalla persecuzione del regime di Gheddafi. Io sono nato in Libia e andato a Manchester da piccolissimo. Lui era addirittura nato là. Ma suo padre era molto più attivo del mio. Durante la rivoluzione del 2011 si è portato dietro tutta la famiglia con Salman a Bengasi per combattere tra i ranghi delle milizie dell’opposizione. Stava con il Libyan Islamic Fighting Group, che riunisce gli estremisti islamici. Noi siamo invece rientrati solo nel 2013 e non abbiamo combattuto», spiega. A suo dire, il carattere di Salman era diverso da quello descritto da larga parte della stampa britannica e pare ricalcare il modello di alcuni tra i terroristi che negli ultimi anni hanno colpito tra Francia e Belgio: non spacciava droghe, non prendeva alcolici, non aveva nulla a che fare con la piccola criminalità. «Salman era un tipo solitario, a volte rancoroso, un po’ strano. Ma tornava a casa presto la sera, non aveva mai avuto una fidanzata, non beveva. Piuttosto, stava ore e ora a pregare e leggere libri religiosi alla moschea di Didsbury. Tanto che io stesso gli avevo suggerito di perdere meno tempo con la religione».

Due settimane prima dell’attentato Salman è a Tripoli. Incontra per caso Ahmed, il fratello minore di Mohammad che fa il cameriere al ristorante Kodo. «Salutami quel tipo di tuo fratello!», esclama. Ma lo fa in tono ironico, di sfida. I due combattono ormai da tempo su fronti opposti. Tanti sanno che Salman è legato ai jihadisti, dalla comunità libica di Manchester (che conta oltre 16.000 persone) sono giunte almeno cinque segnalazioni alla polizia britannica sui suoi discorsi violenti e pericolosi. Mohammad invece dal maggio 2014 sta con le truppe del generale Khalifa Haftar, che da Bengasi combatte Isis e le milizie dell’Islam radicale. Non comunicano più. Ma vengono dallo stesso mondo, hanno trascorsi comuni, Salman parla persino un arabo poco corretto: sradicati in Gran Bretagna, ma neppure a casa in Libia, piuttosto figli della guerra, della violenza che dura da troppi anni in tutto il Medio Oriente.

«Siamo abituati alla morte. Gli occidentali non possono capirlo. Loro venerano la vita, nascondono la morte. Ma per noi è una presenza quotidiana. Io ho tanti compagni uccisi sul fronte di Bengasi. Sono vivo e mi sento in colpa nei loro confronti. Non so come spiegarlo. Però posso comprendere il desiderio di morte che ossessionava Salman», dice Mohammad. Ma per quale motivo massacrare i cittadini di uno dei Paesi Nato che nel 2011 aiutò a defenestrare Gheddafi? Allora Ramadan, il padre di Salman, li ringraziava in nome di Allah. Cosa è cambiato? Mohammad non lo spiega.

Una risposta giunge però dal corrispondente locale della Reuters, che il giorno dopo l’attentato è riuscito a intervistare per 25 minuti Ramadan nella loro casa di Tripoli, un vasto edificio ad un piano circondato da un grande giardino nel quartiere di Ain Zara, prima che venisse arrestato assieme al figlio più piccolo Hashem dagli uomini della Rada, una delle milizie locali più forti. La mamma e la sorella dell’attentatore invece sono state rilasciate nel quartiere di Tagiura. Ma pare che i servizi segreti britannici, arrivati in forze, abbiano chiesto alla Rada di impedire che parlino ai giornalisti. «I responsabili della Rada raccontano che dagli interrogatori risulta che padre e fratello erano perfettamente al corrente dei piani di Salman. E Ramadan durante la nostra intervista ha cercato di glissare, evitare le risposte dirette, quasi non si rendesse conto della gravità del crimine commesso dal figlio. Il fatto è che da molto tempo anche le milizie libiche che beneficiarono più di altre del sostegno della Nato nel 2011 ormai accusano l’Occidente di averle tradite. Le loro speranze sono state disattese. Una volta eliminato Gheddafi, il mondo si è disinteressato alle sorti della Libia e qui nessuno era davvero pronto per governare il Paese senza aiuti dall’estero», racconta il reporter.

Da Manchester anche Jamal Zubiah, portavoce in esilio del governo legato ai partiti islamici che sino al marzo 2016 dominavano a Tripoli, non esita a parlare di «doppio standard ambiguo dei Paesi occidentali». Le sue parole sono lo specchio del mondo di valori e riferimenti dominanti tra gli esponenti della fronda anti-Gheddafi cui appartiene la famiglia del terrorista e che in passato tanto aiuto e sostegno ha raccolto proprio dalle autorità di Londra. «La politica libica dei Paesi Nato è stata disastrosa — afferma —. Oggi tendono persino a sostenere Haftar e i suoi padrini in Egitto. Così non possono che alimentare l’odio nei loro confronti».