Ashraf e sua madre Jamina tra migliaia di migranti disperati. L’Onu si occuperà di loro?

Mamma, mi dai il pallone? «No, Ashraf. Tu devi stare con me». Posso giocare almeno con le guardie? «No, ho paura che ti violentino». Mamma, ma quando andrò a scuola? «Mai». A Jamina la marocchina è rimasto solo Ashraf, 7 anni, e tutta sola se lo tiene tutto il giorno nel buio del capannone delle sudanesi, nel pozzo nero delle sue angosce. I materassi per terra, qualche sporta di plastica, un pallone mezzo sgonfio, mezz’ora d’aria, la puzza densa dei disperati ammassati da mesi. Guai a chi l’avvicina. Jamina non vuole andare in Europa, né tornare in Marocco: dice che vivrà per sempre qui con Ashraf, nel campo-carcere di Sikka, lungo la vecchia ferrovia di Tripoli. Ne ha viste troppe, la sua storia scuote perfino le guardie che ne hanno viste molte: abbandonata incinta da un francese, cacciata dalla famiglia, passata per l’Algeria e la Libia con la speranza d’arrivare in Francia assieme ad Ashraf, prima è finita schiava nel Sahara di Sebha («un giorno mi hanno stuprato 36 camerunesi») e poi è stata venduta a un bordello dell’Isis a Sirte.

Abbandonata

Quando l’hanno arrestata, il figlio sempre con lei, stava completamente nuda in una casa di jihadisti e ha dovuto spiegare il perché. Nessuno ora sa che farne: la famiglia la disconosce, il francese è sparito, il governo marocchino non vuole riavere chi ha frequentato terroristi. «Ma lei non sa nulla del mondo – dice Adel Mustafa, il direttore -, è stata solo sfortunata». In che casella mettiamo questa donna e suo figlio? Rifugiati di guerra? Migranti economici? Gente che poteva starsene a casa sua? Oggi Jamina ha 34 anni, è disturbata e spesso straparla, un giorno si vela e l’altro si spoglia, spesso picchia il bambino per niente. Ashraf sogna di fare il pilota d’aereo, non ha amici e quando incrocia un altro ragazzino, dopo un po’ l’aggredisce e lo morde. «Ci vorrebbe uno psicologo. L’abbiamo chiesto all’agenzia Onu per i profughi, l’Unhcr, ma non hanno mandato nessuno. Noi scoppiamo di gente, da sei mesi non paghiamo le guardie e nemmeno chi ci fornisce i pasti… Chi può occuparsene?».

 L’Onu

Probabilmente se ne occuperà l’Onu. Il bivio libico è da anni lo stesso – o la barca, o la gabbia – e se non si stoppano i barconi, si possono almeno migliorare le prigioni. Il premier Fayez Al Serraj l’ha anticipato, l’Onu l’ha in parte confermato: la Libia non ha mai firmato la Convenzione internazionale del 1951 sui profughi e a Tripoli non c’è un Parlamento che la possa ratificare, ma così non si può più andare avanti. D’ora in poi sarà l’Unhcr a gestire almeno i centri d’accoglienza governativi (poi ce n’è una trentina in mano alle milizie: per quelli si vedrà). Perché l’Europa ha investito 400 milioni e metà li ha dati l’Italia: 12 alla Tunisia, 50 al Niger, 138 ai libici. Per pattugliare il mare, presidiare i confini del Sud, migliorare le prigioni. I soldi al momento arrivano come arrivano: «Delle prime quattro motovedette libiche riparate e riconsegnate dagli italiani – protesta il colonnello guardacoste Ayoub Abulgasem -, una è la 654-Sabratha e s’è già rotta quattro volte. È’ un arnese vecchio di vent’anni, del tempo di Gheddafi. Credo che il governo italiano potesse fare meglio».

La polemica con le Ong

La Guardia costiera libica ha più uomini che mezzi, è duramente criticata dalle ong per gli attacchi alle navi umanitarie, è stata addestrata sulle navi italiane e ancora non è ben chiaro che che ruolo avrà: il porto per ora è in gran parte controllato dalle Forze speciali marittime vicine a Misurata, 153 miliziani che per salvare i migranti usano anche i vecchi yacht di Gheddafi, però sono i guardacoste a ricevere con tutti gli onori gli aiuti europei. «Negli ultimi anni il traffico in mare è molto cambiato – dice il colonnello Abulgasem – e per la verità ci servirebbero mezzi più moderni. Che cosa facciamo? Siamo stati noi a segnalare per primi lo scandalo di qualche ong tedesca che faceva un lavoro poco chiaro. A chiedere che i volontari levassero le loro navi dalle nostre acque e andassero, piuttosto, a fare prevenzione ai confini meridionali, da dove arrivano gli immigrati. Vorrei lavorare coi giudici di Catania che indagano su questa cosa, ma non mi ha mai contattato nessuno». La polemica con le ong è rimbalzata anche qui: «Ho lavorato fino al dicembre 2015 con Msf – racconta Ahmed L., 40 anni, oggi nelle telecomunicazioni -. È una grande organizzazione, aveva qui 65 impiegati, il lavoro era trasparente e pulito. Però anch’io preparavo le barche, i kit di salvataggio, le mappe di soccorso e ogni tanto me lo chiedevo: ma non è che in questo modo rendiamo più facile il lavoro dei trafficanti?».

I migranti da sistemare

L’urgenza è altra, però. Ed è di questa che l’Onu dovrà occuparsi. Sistemare 300mila persone, forse tre volte di più, che vagano sfollate per la Libia. Trentamila donne simili a Jamina, 20mila bambini spesso orfani totali, la metà stuprata o malmenata: quando va bene, tutti sbarrati come bestiame in questi hangar senza luce e senz’acqua; quando va male, schiavi nelle migliaia di case gestite dai trafficanti. Ad Abusalim, cemento rovente e un’ora d’aria al giorno, «i pochi poliziotti che abbiamo non ricevono la paga da sei mesi, arrotondano con altri lavori e a volte sono violenti», riconosce il direttore Ramadan Rais. Gli sbirri sono tutti e solo uomini, anche nelle sezioni femminili: «Siamo abituati a considerare gli immigrati come nemici – spiega -. È così dall’era Gheddafi, non si cambia in poco tempo. Questi centri sono infernali, è vero, poco umani. Gli africani stanno chiusi dentro per mesi, senza documenti. C’è la tentazione d’aprire i cancelli e far uscire tutti. Ma la soluzione quale sarebbe? L’Unhcr? Vi ricordate gli affari che faceva il figlio di Kofi Annan in Iraq? Quand’era qui, l’Onu aveva funzionari locali che giocavano sul cambio, spendevano 10mila dollari e ne fatturavano 50mila. Facevano la cresta sul cibo. E anche Serraj può dire quel che vuole: non ha mai messo piede in una prigione, è mai venuto a vedere come si vive qui dentro…».

I centri libici

I centri libici sono discariche umane che nessuno vuole smaltire, differenziare, riciclare. Scabbia, epatiti, Aids. Ci trovi uno come il nigerino Yusuf Ignace, che salta sulla nostra auto e ci chiede di farlo scappare: non è un profugo, per un anno ha fatto il cameriere a Tripoli, senza paga, e alla fine il padrone libico l’ha accompagnato e consegnato qui («è un clandestino!»). O il vecchio Fred, 68 anni, nigeriano, che piange ogni giorno: «Sono venuto in Libia solo per cercare mio figlio. È sparito mentre voleva venire in Italia, non so se è vivo. Sto qui dentro ad aspettarlo, pur di trovarlo e tornare a casa con lui». C’è Abdurrahman Baldé, 15 anni, partito dalla Guinea solo per dimostrare a una squadra di calcio italiana come sa giocare. O un ingegnere senegalese che si è venduto la vacca, la casa, la moto e da febbraio marcisce al buio d’un magazzino che può tenere 500 persone e ne stipa il doppio, i materassi da dividere in tre: «Chiamate la mia ambasciata, dite che dell’Italia non me ne frega più niente, io voglio tornare in Senegal!». L’ingrigito Mohammed Alamin Salah, classe 1963, oppositore armato nel Fronte di liberazione del Ciad, rinchiuso da cinque anni: «Non posso rientrare in patria, altrimenti mi ammazzano». Una bambina di 3 anni è sola, senza documenti, forse ivoriana o forse del Benin. Avevano programmato di farla nascere dopo la traversata in gommone, «perché qui sanno tutti che nascere in un Paese Schengen dà diritto all’asilo – spiegano -. Ma non ha funzionato, è nata in Libia, i genitori chissà dove sono finiti». Era una bambina lasciapassare, «come tante figlie di donne che vengono violentate apposta per poter essere imbarcate sul gommone», ma adesso non serve più a nulla. Le danno il latte in polvere per neonati, che le guardie si fanno regalare da una farmacia vicina: a tre anni, non ha diritto nemmeno a un pasto.