Soltanto una coalizione che si muove davvero unita può trovare gli strumenti per combattere il terrorismo riuscendo a prevalere. E così salvare il futuro di tutti

Da anni l’Italia è impegnata sul fronte libico in un’attività di prevenzione che mira a fermare i flussi migratori e a proteggere le aziende impegnate in quell’area. Ha evidenziato ripetutamente i rischi legati al terrorismo in un Paese allo sbando dove i leader dell’Isis hanno già dimostrato di essere pronti a combattere e morire pur di conquistare la maggior parte dei territori. E ha chiesto aiuto alla Ue per pianificare progetti concreti a sostegno della popolazione nordafricana e contro l’offensiva delle organizzazioni criminali. Ma non ha mai ottenuto risposte soddisfacenti dai partner europei.

Gli appelli sono sempre caduti nel vuoto. Non si può negare che anche il nostro Paese abbia commesso errori, talvolta puntando su personaggi ambigui, altre volte prendendo una strada che non si è rivelata efficace. Ma aveva comunque la volontà di risolvere i problemi e, nonostante le promesse e gli impegni formali, il governo di Roma è stato lasciato solo ad affrontare un’emergenza che era invece di tutta l’Europa.

Ora lo scenario è completamente cambiato. Salman Abedi, l’attentatore di Manchester che lunedì sera ha fatto strage al concerto dell’idolo delle ragazzine Ariana Grande, è un cittadino britannico con origini libiche. La sua famiglia viveva in Libia, i «visti» sul suo passaporto britannico dimostrano che anche lui è andato più volte a Tripoli. E questo fa presumere che proprio lì possa aver avuto legami tali da aiutarlo nella sua missione di morte.

Soprattutto fa temere che i suoi contatti possano essere ancora attivi e determinati a portare avanti quella stessa strategia del terrore. Anche perché gli accertamenti condotti in queste ore accreditano la possibilità del suo inserimento in una «rete» che porta alla cellula jihadista entrata in azione nei mesi scorsi a Parigi e Bruxelles.

Per gli apparati di sicurezza e intelligence europei la Libia è improvvisamente balzata in cima alla lista delle priorità da affrontare. Una realtà che gli analisti italiani indagavano invece da tempo e hanno continuato a esplorare anche grazie all’attività delle forze speciali che da oltre un anno — in base a un decreto firmato dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi nel marzo 2016 — effettuano missioni segrete proprio nello Stato africano. L’Italia è l’unico Paese ad aver siglato un accordo bilaterale di cooperazione con il governo guidato da Fayez al-Serraj, impegnandosi a fare da mediatore per raggiungere un accordo politico interno che possa pacificare il Paese. Dieci giorni fa il ministro dell’Interno Marco Minniti e il collega tedesco Thomas de Maizière hanno firmato un appello congiunto affinché l’Ue intervenga per programmare interventi nel sud della Libia, al confine con il Niger. L’obiettivo principale è sviluppare progetti in quell’area per convincere le popolazioni locali a rimanere, pattugliare le frontiere per impedire l’attraversamento del deserto, creare campi di accoglienza dove chi vuole chiedere asilo possa essere identificato e — una volta ottenuto il riconoscimento dello status — dirottato nel Paese dove ha chiesto di vivere.

Si tratta di un’iniziativa importante che avvicina Berlino e Roma. La Francia ha subito espresso sostegno. E la Commissione guidata da Jean-Claude Juncker ha fatto sapere di voler affrontare il problema con urgenza non escludendo di poter partecipare anche con un impegno economico. Una posizione che però — come già accaduto in passato di fronte a richieste di aiuto — potrebbe risolversi in un nulla di fatto. E invece mai come in questo momento sarebbe necessario fare fronte comune e pianificare una strategia di intervento che possa aiutare il governo di Tripoli a stabilizzarsi, in modo da avere il controllo del proprio territorio e riportare la situazione alla normalità. È vero che negli ultimi mesi l’Isis ha subito una battuta d’arresto nell’avanzata in Libia, ma la sua presenza è ancora molto forte. Così come è vero che dalle città riconquistate dalla coalizione occidentale sono fuggiti moltissimi reduci. Alcuni hanno fatto rientro nei Paesi d’origine, altri potrebbero essere entrati in Europa o comunque intenzionati ad arrivare.

È una situazione che non si può sottovalutare perché i rischi sono davvero altissimi. Quanto accaduto in quell’arena del Regno Unito piena di adolescenti felici per il concerto della loro beniamina, mostra la barbarie dei fondamentalisti islamici. La rivendicazione di Daesh che definisce i ragazzini sugli spalti «un raggruppamento di crociati», annuncia che «il peggio deve ancora venire» e «loda il signore» per la missione compiuta dal kamikaze, fa ben comprendere che cos’altro può accadere. Per questo non bisogna perdere l’occasione di reagire e bisogna farlo in maniera forte, con provvedimenti efficaci. Soltanto una coalizione che si muove davvero unita può trovare gli strumenti per combattere il terrorismo riuscendo a prevalere. E così salvare il futuro di tutti.