Roma non ha appoggiato la candidatura del nostro diplomatico Lamberto Zannier. La motivazione ufficiale: il passato coloniale. Stupore a Palazzo di Vetro

Qualunque seguito abbia il vertice di Celle Saint-Cloud tra Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar, emerge l’intento di Emmanuel Macron di infilarsi sul terreno libico dove l’Italia ha cercato di ritagliarsi un ruolo di interlocutore privilegiato negli ultimi anni. E lo fa anche sfruttando gli spazi vuoti lasciati dalla stessa Italia in merito al dossier del Paese maghrebino, come ad esempio l’incarico di rappresentante del segretario generale delle Nazioni Unite in Libia. Incarico oggi ricoperto da Ghassan Salamè, politico e diplomatico libanese con vigorosi legami proprio con la Francia, ma che poteva essere di titolarità italiana. A confermarlo sono funzionari del Palazzo di Vetro tanto quanto fonti vicine agli ambienti governativi di Roma e Tripoli. «Antonio Guterres aveva preso in seria considerazione la persona di Lamberto Zannier quale inviato per la Libia – spiegano – e lo aveva inserito nella rosa ristretta dei finalisti, forte anche della conoscenza che i due avevano sviluppato nei rispettivi incarichi operativi proprio in ambito Onu».  

Le cose però hanno seguito un corso diverso visto che l’incarico in Libia è stato affidato dapprima al palestinese Salam Fayyad e poi al libanese Ghassan Salamè. A Zannier è stato invece assegnato l’Alto Commissariato per le Minoranze Nazionali per l’Osce, incarico assunto qualche giorno fa. «Sembra che Guterres sia rimasto sorpreso dalla posizione defilata di Roma al Palazzo di Vetro per quanto riguarda la Libia – spiegano fonti Onu – così come Ban Ki-moon rimase interdetto osservando lo stesso atteggiamento qualche anno prima», quando a farsi avanti per la Libia fu Romano Prodi. L’ex premier italiano era visto come la persona che aveva tutte le carte in regola per «tentare l’impresa», anche per la conoscenza della regione circostante sviluppata durante il suo incarico di inviato speciale per la crisi nel Sahel, dal 2012 al 1° maggio 2014. «Opportunità mancate del tutto incomprensibilmente» affermano fonti vicine all’esecutivo di Roma, e «quand’anche Prodi fosse stato ritenuto troppo “politico” avremmo potuto lanciare un diplomatico di  frontiera in uscita dal secondo mandato alla guida dell’Osce».  

Da Palazzo Chigi e dalla Farnesina, la linea di fatto seguita in materia è stata sempre quella del «siamo un’ex potenza coloniale, non è opportuno». O forse c’è dell’altro. In ogni caso però si tratta di un’impostazione che esclude Roma da un osservatorio, quello di inviato Onu, che ha una certa valenza per il Paese, e che lo vede ora nelle mani di Salamè, diplomatico di abilità e integrità indiscusse. Come indiscusse sono la sua formazione alla Sorbona, la sua presidenza della Scuola di studi internazionali di Parigi e, fra le altre, le onorificenze di cui è stato insignito in Francia, come quella di Cavaliere della Legione d’onore. Una candidatura la sua alla quale Macron non si è certo opposto.