Buone notizie dall’Europa. Da quanto tempo le aspettavamo, sul tema scottante dei flussi migratori che dalla Libia attraversano il Mediterraneo per raggiungere le nostre coste? Da molto, troppo tempo. Ma così come siamo stati puntuali e severi nel denunciare le indifferenze europee quando si sono manifestate, oggi è doveroso constatare con un cauto compiacimento che dal vertice di Parigi sono venute all’Italia e al suo governo impegnative espressioni di appoggio. Le regole per le Ong, gli accordi raggiunti dal ministro Minniti con autorità locali libiche, l’appoggio operativo dato alla guardia costiera di Tripoli, sono stati recepiti come altrettanti punti di partenza di una strategia complessiva che offre proprio in Italia l’incoraggiante riscontro di un netto calo degli arrivi.

 

Certo, attorno al tavolo di Parigi e sotto il patrocinio di Emmanuel Macron sono state scambiate parole, ancora parole. E a pronunciarle, malgrado la presenza dell’Alto rappresentante per la politica estera della Ue Federica Mogherini, era una minoranza dell’Europa, non tutta l’Europa. E tuttavia il cambiamento di approccio nei confronti della «linea italiana» è stato politicamente rilevante. Per almeno due motivi. Perché i Quattro di Parigi (Francia, Germania, Italia, Spagna) sono gli stessi Quattro che dopo le elezioni tedesche di fine settembre dovrebbero guidare il rilancio dell’Europa secondo il metodo delle «diverse velocità».

 

Soprattutto perché la più influente di queste avanguardie, quella signora Merkel che è ormai certa di essere rieletta alla Cancelleria, ha affermato alla vigilia dell’incontro di Parigi che «tutti in Europa devono riconoscere come il vecchio sistema di Dublino non sia più sostenibile».

 

L’idea di una rottamazione del metodo di Dublino (il profugo resta nel Paese dove viene identificato per la prima volta) non è nuova, e non è la prima volta che Angela Merkel la evoca. Ma riaffermarla mentre è in atto la volata finale della sua campagna elettorale e portarla volutamente sul tavolo di Parigi sono elementi che fanno pensare a una volontà politica precisa destinata a manifestarsi con maggior forza dopo il responso delle urne. Ed è evidente che ripensare radicalmente Dublino resta per l’Italia il più importante dei traguardi da raggiungere.

 

Un passo avanti è stato dunque compiuto, forse uno di quei passi che annunciano svolte profonde. L’Italia ha tutto il diritto di aspettarselo. Ma il compiacimento di oggi, per non rischiare di trasformarsi in delusione cocente, deve essere temperato dalla consapevolezza degli ostacoli che sussistono sulla via di una corretta e realistica gestione delle spinte migratorie.

 

Il tempo delle vite da salvare in mare non è tramontato, e verosimilmente non tramonterà. L’opera delle Ong che hanno preferito ritirarsi pur di non accettare le nuove regole imposte dall’Italia andrà compensata, perché non è pensabile, e nessuno vuole pensare, che un aumento delle morti in mare faccia parte della soluzione.

 

L’opera della guardia costiera libica, anche grazie all’appoggio e all’assistenza italiana, si sta rivelando positiva. Ma ha ragione la Merkel quando, dopo gli elogi, ricorda che essa deve attenersi alle leggi internazionali sia nella gestione dei migranti sia con le Ong.

 

Non si può e non si deve trasformare la Libia in un enorme campo profughi privo di garanzie umanitarie minime. Alla massa crescente dei migranti in attesa di imbarcarsi si aggiunge ora quella più piccola di coloro che sono stati intercettati e riportati a terra. E per i primi come per i secondi non esistono garanzie sulle procedure che vengono seguite, mentre esistono invece certezze sulle atrocità che le milizie dei trafficanti infliggono ai loro ostaggi. Senza un effettivo intervento in Libia dell’apposita agenzia Onu e della Organizzazione mondiale delle migrazioni, la realtà libica può soltanto alimentare preoccupazioni assai gravi. Anche in quella Tripolitania che dovrebbe essere governata dal nostro alleato Fayez al Serraj. Quando gli standard umanitari minimi saranno garantiti, ma soltanto allora, si potrà passare alla creazione di hot spots in Libia e al rimpatrio dei migranti nei loro Paesi di origine partendo, traguardo questo di fondamentale importanza, dal territorio africano anziché da quello europeo.

 

Questa strategia richiede una serie di politiche preliminari. Vanno conclusi accordi con i Paesi africani interessati e con quelli che possono frenare i migranti che attraversano il Sahel per entrare poi in Libia (i presidenti di Ciad e Niger erano a Parigi), occorre offrire alternative economiche alle popolazioni che oggi si trovano sulla rotta dei migranti e ne traggono benefici, occorre investire nei Paesi di origine per contenere la spinta all’emigrazione. Ma gli investimenti economici necessitano di tempo per dare frutti, e la pressione migratoria ha fretta.

 

Sullo sfondo rimangono tutte le divisioni e tutta l’insicurezza della Libia attuale. A Parigi c’era Al Serraj (anche questo è un riconoscimento per la linea italiana), ma senza una reale collaborazione con Haftar e la Cirenaica, rivelatasi finora impossibile, i progressi in Tripolitania restano vulnerabili. Oppure indicano la via di una «cantonizzazione» della Libia.

 

Sul versante europeo, poi, la questione migratoria rischia di spaccare la Ue. Mentre tutti guardano alla Brexit, è il gruppo di Visegrad che rappresenta per l’Europa la più seria minaccia di secessione. Una minaccia che viene già attuata quando si tratta, come dice risolutamente la Merkel, di «distribuire i profughi in modo solidale». La grande partita sta per cominciare, e si giocherà in Europa non meno che in Africa.