Molto si gioca nel deserto del Fezzan. Anche le elezioni. «Sicurezza, sanità, 2 milioni di euro per lo sviluppo». 
Ma i sindaci protestano e il piano Minniti si è insabbiato

 

 

Dentro al capannone crepato, tra polvere e ruggine, restano i macchinari della Fava, azienda ferrarese tra le eccellenze nella produzione di impianti per la pasta. Per rimettere in funzione quella che un tempo era una fabbrica e garantire lavoro a più di duemila persone servirebbero 800 mila euro. Maccheroni in Libia, se l’Italia vorrà. «È seppellita, come ogni progetto per il sud», sentenzia Hamed al-Hayali, sindaco di Sabha, città a metà strada tra le coste del Mediterraneo ed il confine con il Niger, porta d’accesso dell’Africa sub-sahariana verso l’Europa. Da qui, secondo l’Unhcr, sono passati oltre 330 mila migranti lo scorso anno. Sabha è il capoluogo del Fezzan, un’area grande due volte l’Italia, ricca di petrolio e acqua e carente di un’autorità centrale e di istituzioni funzionanti, in cui tribù rivali lottano per assicurarsi i profitti dei traffici. Ed è qui che l’Italia ha concentrato il suo interesse strategico per un equilibrio concreto dell’intera Libia.
È passato più di un anno dal primo passo della “diplomazia del deserto”. Era il dicembre 2016 e a Roma, con il sostegno finanziario della Commissione, la tribù dei tebu guidata dal sultano Al Zilawi Minah Salah e quella degli awlad suleiman rappresentata dal generale Senoussi Omar Masaoud Zayd decisero la riconciliazione condizionata a riparazioni. Un incontro promosso e facilitato da “Ara Pacis Initiative”, un’associazione internazionale che si occupa della risoluzione dei conflitti. L’obiettivo era evitare reciproche vendette, mettere fine alle ostilità. Un mese dopo 14 dei 16 sindaci del sud incontrarono Marco Minniti, da poco nominato ministro dell’Interno, per estendere all’intera regione il progetto di stabilizzazione. Seguì il memorandum di intesa della Libia con lo Stato amico italiano a febbraio e a fine marzo la pace tra tebu e awlad suleiman, con i tuareg a far da testimoni e la firma del nostro ministro a suggellare l’intesa.
La strada sembrava ormai spianata. Invece nei successivi incontri Minniti è riuscito a rivedere solo un paio di rappresentanti del sud, mescolati a quelli delle città costiere. Eppure l’Italia in questi mesi ha riaperto l’ambasciata, stretto accordi, dato il via al “Minniti compact”. Il Fezzan «è assolutamente fondamentale per la stabilità», secondo il governo italiano, che ammette: «la riconciliazione richiede un complesso negoziato interno che coinvolge anche Tripoli». Un meccanismo che, visto dal sud della Libia, si è inceppato. «Ho inviato all’ambasciatore Giuseppe Perrone una lettera per il vostro ministro dell’Interno. Ci sono i progetti per Sabha», racconta brandendo un foglio al-Hayali. È datato 5 ottobre. Oltre al pastificio, strade, fognature, 250 mucche per il latte. E poi fondi per riattivare l’aeroporto internazionale, punto di accesso per tutto il sud e anche per le operazioni di rimpatrio. «Se volete mandarli a casa come pensate di fare?», chiede ironico. Insieme all’addestramento di una forza inter-tribale per proteggerlo.
«Ancora non si è visto nulla», scuote la testa. Promesse rimaste lettera morta. Nel caos libico le richieste rimbalzano e il progetto a lungo termine del ministro Minniti di far ripartire un’economia legale in quel Fezzan «cruciale per il confine meridionale dell’Europa», con le tribù del Sahara trasformate in «guardiani», si fa sempre più tortuoso.
«Non possiamo accettare richieste senza l’autorizzazione del governo libico», chiarisce l’ambasciatore Perrone. «Peccato che da Tripoli nessuno mi abbia domandato di inviarle», ribatte il sindaco di Sabha. Eppure a settembre la Commissione europea riceve una lettera. Contiene gli «sforzi italiani» finalizzati «a promuovere lo sviluppo di comunità locali, in linea con i progetti di cooperazione con 14 municipalità libiche». Solo due sono del sud. Ad Al Shueref reclamano dall’ospedale al circolo ippico, da un nuovo quartiere residenziale a un workshop di ricamo. Ad Al Qaţrūn invece va di moda l’istruzione, ma solo ad alto livello: urge istituire una facoltà di pedagogia.
«Il ministro del governo locale Baddad Qansu e Ahmed Maiteeq, il vicepremier che ha in mano il dossier Italia, ci hanno ingannato. Sono corrotti, prendono i finanziamenti e li spendono come vogliono», tuona al-Hayali. A Tripoli però sostengono che il sindaco di Sabha sia al soldo di Khalifa Haftar, il generale della Cirenaica che si sente leader in pectore del Paese. Lui però replica: «Si è impegnato sul fronte della sicurezza, ma non ha ancora fatto nulla per lo sviluppo».
Lo sviluppo necessario per un paese in ginocchio, insicuro per i migranti e per i libici, stremati dalla forte crisi di liquidità. Con il tracollo dell’economia le organizzazioni criminali lucrano senza pietà. Come nella prigione di Ali Sida, un tebu generale ciadiano ribelle che ai tempi di Gheddafi era soldato per Haftar. «Prima occupava una villa vicino a Sabha, ora si è spostato a Um Al-Aranib, 150 chilometri più a sud. Con lui ci sono trafficanti da più parti dell’Africa e centinaia di migranti», svela un anziano comandante dei tebu. A sud conoscono quella fortezza difesa da filo spinato e guardie armate di kalashnikov. Dentro si stupra, si uccide, si finisce appesi a testa in giù flagellati con tubi di gomma. Chi non ce la fa e non ha soldi per pagare il riscatto viene buttato via, chiuso dentro ai sacchi per l’immondizia. Sanno e non riescono a impedire la mattanza. È un traffico come un altro, a ognuno il suo.
«C’è una specie di Schengen in Africa: Agadez è dei tuareg fino a Dirkou alla frontiera con il Niger. A Dirkou i tebu li portano fino a Al Qaţrūn dove li passano ai libici che li fanno arrivare a Sabha, quindi li consegnano agli awlad. Da nord scendono petrolio e armi che vanno verso Niger e Mali», illustra Abdallah Ali Abduljalil, responsabile delle relazioni internazionali per gli awlad suleiman.
Quello dei migranti è il traffico più facile. Infatti, a differenza di droga e armi, è gestito anche dai ragazzini. Ogni giorno dal confine partono 4 o 5 pick-up, carichi ciascuno di 35 persone, «ti muovi con il Gps, ma la rotta la conosciamo bene, la impariamo da piccoli». Ahmed ha vent’anni e su un pezzetto di carta annota: «Fanno 1.200 dollari per ogni migrante». Poi disegna una mappa. «Da Sabha chi parte per Banī Walīd entra sotto il controllo della tribù Megarha», quindi tira le frecce: «Da Banī Walīd si va o verso Zuwārah o Sabratah o Garabulli o Tajura». Ahmed si considera una guida nel deserto: «Il problema sono le bande armate che gestiscono le prigioni. Io garantisco solo il passaggio». Guarda un video in cui alcuni ragazzini prendono a bastonate i migranti e spiega: «È per far capire chi comanda, c’è razzismo anche in Africa tra di noi». Nel sud della Libia il traffico di esseri umani, secondo un report di International Crisis Group, genera introiti tra un miliardo e un miliardo e mezzo di dollari. Rinunciarci significa per molti perdere l’unica fonte di guadagno, sigillare il confine potrebbe quindi incentivare la popolazione a stringere ulteriori accordi con i criminali. «A Sabha e nei dintorni di Awbari hanno trovato rifugio molti combattenti dello Stato islamico in fuga da Sirte. Sono nascosti e si sono camuffati, hanno la barba tagliata. Aspettano e si preparano», racconta Abduljallil. Molti sono stranieri. Mostra una foto e un passaporto “Chaib Attaf, classe 1980 francese di Auxerre, regione Nord Lille”. Una lunga lista che comprende anche l’algerino Mokhtar Belmokhtar al-Murabitun, il famigerato Mr. Marlboro, tra i più influenti signori della guerra del Sahara. Poco più in là a Madama, nel nord del Niger, sono impiegati i soldati francesi. «Si preoccupano dei terroristi, non dei trafficanti. Lasciano passare i migranti perché arrivano da voi in Italia, mica in Francia», sottolinea il rappresentante degli awlad suleiman. La guarnigione dell’Armée non si cura della moltitudine in movimento nel deserto nonostante schieri squadriglie di Mirage da ricognizione.
Ora anche l’Italia darà un suo contributo: fino a 470 uomini. Il rischio però è che il binomio minaccia terroristica – gestione dei flussi migratori serva da pretesto per la crescente militarizzazione e per lo sfruttamento delle risorse a partire dalle miniere di uranio che alimentano gli impianti nucleari d’Oltralpe.
In Libia i francesi si sono mossi da protagonisti. Un alto funzionario del ministero dell’Interno guidato da al-Aref al-Khoja, seduto sui divanetti in un hotel deserto di Tripoli, rivela che in un recente incontro a Ginevra «hanno tentato di sottrarre il dossier all’Italia» e membri delle tribù del sud riferiscono che un’ong francese «ha proposto di uscire dalla riconciliazione di Roma per farne un’altra con loro». Tutti si interessano al Fezzan, ma i progetti di sviluppo non partono. «I soldi non arrivano a causa della burocrazia», spiega Almahdi Alamen, ministro del Lavoro tebu del governo al-Sarraj. «Arriveranno», assicura, «ma i sindaci del sud devono parlare con me, con Maiteeq e Baddad». Spaccature, cordate e tanto denaro da accaparrarsi. Del resto ricorda il ministro tebu: «in questo momento il traffico di esseri umani è gestito dalle mafie di mezzo mondo, non solo da quelle libiche». Se i migranti arrivano in Europa devono passare dal Fezzan e questa terra di disperato e incontrollato contrabbando sa bene quanto possa far valere il suo peso.
«Il sud gioca un ruolo chiave nell’unità nazionale e nella protezione delle frontiere libiche» ha di recente evidenziato l’inviato Onu Ghassan Salamé. Poi ha promesso che la Libia andrà al voto nel 2018. Proprio le prossime elezioni sono tra le cause dell’escalation di violenza nel Paese, un clima di tensione in cui il governo di accordo nazionale risulta sempre più fragile e varie fazioni vogliono accreditarsi come interlocutori. Lo testimoniano le autobombe di Bengasi che rappresentano uno dei segnali.
I cinque mila chilometri di sabbia, confine mobile di carovane e traffici, appaiono quindi ancor più determinanti. «Sono previsti progetti strutturali, interventi legati alla sicurezza, forniture di strumentazioni mediche e anche due milioni di euro per un progetto umanitario delle città di Awbari e Sabha stanziato dall’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo», illustra Perrone. L’Italia ha avviato procedure per fare fronte alle richieste di massima emergenza e un complesso negoziato con la Commissione europea. Le consegne dei medicinali, secondo il nostro governo, «inizieranno in raccordo con il governo libico nei prossimi giorni» ed è stato pianificato «un sopralluogo di tecnici italiani ed europei a Ghat per avviare un importante progetto rivolto al rafforzamento della sicurezza delle frontiere». Rispetto ai programmi però Perrone tiene a precisare: «l’attuazione coinvolge il governo libico, la palla sta a loro». Non solo a loro. Nonostante si tratti di affari esteri, la gestione dei rapporti è in mano al ministro dell’Interno Minniti.
Di fatto il piano di cooperazione Italia-Libia avanza con difficoltà e dagli organismi internazionali arrivano condanne per la complicità con chi viola i diritti umani. Più che fondi per la sicurezza e la repressione, buoni per coprire il vuoto politico e diplomatico, servono risorse per lo sviluppo. Si rischia infatti di dare denaro a chi traffica con le vite, offrendogli la possibilità di giocare la partita del ricatto: il calo del 32 per cento degli sbarchi, sottolineato da Minniti, potrebbe infatti capovolgersi in vista delle elezioni in Italia e trasformarsi in un’arma di pressione. Nel frattempo, tra resistenze e interessi, la realizzazione di progetti in grado di migliorare le condizioni della popolazione del sud risulta sempre più complicata. A Sabha spaghetti e rigatoni restano un miraggio.